Come si manifesta il prendersi cura in una situazione estrema? Luciana Nissim Momigliano (1919/1998), rinchiusa ad Auschwitz come Primo Levi e anche lei sopravvissuta, è stata una famosa pediatra e psicoanalista italiana di origine ebraica superstite dell’Olocausto. Nello straordinario libro dal titolo “Prendersi cura” (a cura di Lorena Preta, ed. Alpes) si racconta la sua toccante storia e la sua eccezionale profondità d’animo.

Appena arrivata al campo, dopo la spogliazione, l’essersi messa in fila, l’aver subito il marchio del numero sul braccio, il taglio dei capelli e la selezione fra chi è destinata all’eliminazione e chi al campo di lavoro, disse: “Sono una dottoressa”. 

Questa frase non evoca un semplice istinto di sopravvivenza, ma contiene un significato più profondo, cifra distintiva in tutta l’opera della Nissim. Un aspetto che le ha permesso l’umana sopravvivenza ad Auschwitz e che è stato alla base del suo modo di fare psicoanalisi. Cioè è riuscita a Tenersi in Contatto con l’attitudine a prendersi cura dell’altro insita in ogni esser umano e con la comprensione profonda di riconoscere in ciascuno questa capacità che tiene in vita, dal bambino che imbocca la mamma, al paziente miglior collega, a una concezione psicoanalitica basata su un prezioso fondamento relazionale. Se Auschwitz annulla ogni senso di umanità e soggettività, la sua frase d’esordio “sono una dottoressa” ci dice: sono un medico, so che posso stare in contatto con l’attitudine di prendermi cura degli altri e dell’altro/me stessa, come radicamento della condizione umana di cui si fa esperienza all’inizio della vita nel rapporto madre bambino.

Questo radicamento epistemologico riguarda lo statuto del soggetto e quello dell’altro ed è una dichiarazione universalmente umana di fronte alla negazione della radice relazionale.

Nel campo la Nissim fa l’infermiera, svolge un lavoro di cura senza avere strumenti a disposizione, ma facendo ricorso a tutte le sue risorse e posture interne per aiutare chi sta peggio di lei. La Nissim cura con la relazione, il coltivare i legami, l’ascolto, lo sguardo e impara a conoscere l’esser umano in condizioni estreme e a comprender l’intima esigenza di relazionalità reciproca. Questa straordinaria esperienza di cura la portò alla concettualizzazione del suo noto lavoro “due persone che parlano in una stanza” (1984).

L’esperienza estrema di Auschwitz ha contribuito a creare in lei la consapevolezza della dimensione umana di cura, necessaria per sopravvivere, e anche la consapevolezza che coloro che aiutiamo ci aiutano a loro volta, mettendoci in contatto con aspetti della nostra mente che fino ad allora non avevamo potuto visitare, in quanto non interpellati dal bisogno di cura da parte dell’altro, che risveglia angosce, tensioni e zone oscure sopite e in attesa di essere comprese ed elaborate. Si resta in contatto con una dimensione umana, se si assume il vertice della disponibilità a lasciarsi raggiungere dal dolore degli altri, nel senso di aspettarsi dagli altri una mano tesa, una collaborazione ad uscire insieme dall’abisso. La cura, attitudine ontologica ineludibile, salvaguarda, tiene in vita e garantisce la dimensione della comunità umana.